«E noi scendiamo in piazza per polemica, per protestare contro la mancanza di tutto, anche di un teatro». Queste vibranti parole di Vincenzo Gamna condensano quasi trent’anni di storia e di fatiche del gruppo teatrale carignanese, più noto con il nome di Cantoregi, e ne costituiscono una sorta di manifesto sintetico. Per chi conosce l’opera indefessa del regista e del suo gruppo, il nesso tra il “tutto” – spazio sociale e civile di una città, vita profonda di una comunità – e il “teatro”, appare fin da subito come l’enunciato più chiaro di un progetto culturale, frutto di una lunga formazione “sul campo”, perseguito sempre con lucida coerenza: è il “teatro”, infatti, a esprimere il senso di un gruppo sociale, a scandirne le date rituali, a imporsi come occasione e condizione espressiva corale e globale. Quando manca il “teatro”, insomma, manca tutto, manca la città. Non è un caso, allora, che la nascita dell’esperimento Cantoregi avvenga in un momento storico che induce la comunità carignanese a un ripensamento del proprio essere “paese”, in relazione al cambiamento del mondo produttivo della società in generale e della città in particolare. L’industrializzazione, successiva al boom economico, ha impoverito la tradizionale solidità delle famiglie agrarie, senza riuscire ad affermare un nuovo modello sociale: tutto ciò mentre lo spettro della crisi economica è oramai alle porte. La risposta di Cantoregi al rischio di una vera e propria deriva culturale è tutta nell’affermazione precedente: scendere in piazza per protestare, per opporre alla mancanza del “tutto” la costruzione di uno spazio ideale di confronto e di conoscenza, d’indagine della propria identità perduta e di “laboratorio” per la costruzione di una nuova immagine di sé. Appunto un teatro, i cui mattoni sono uomini e donne, storia e memorie. All’esordio ufficiale della Cantoregi si arriva dopo un iter lungo un anno, avviatosi quando nel 1976 Gamna viene mandato da Andrea Barbato, allora redattore della trasmissione Rai Almanacco, a effettuare alcune riprese di Vietato invecchiare, lo spettacolo annuale proposto dal gruppo del Teatro Povero di Monticchiello. Il paese della Val d’Orcia era, già all’epoca, oggetto di attenzione per la sua originale attività teatrale, caratterizzata da una massiccia partecipazione collettiva e da un lavoro meticoloso di valorizzazione della storia locale. L’esperienza è fulminante e segna l’incontro con un modello teatrale, l’autodramma, efficace nella resa scenica, profondo come strumento di “scavo” nella storia collettiva di un paese e utile a fornire un servizio di “cultura attiva” a tutta la comunità. Anche il testo, dedicato al tema degli anziani, colpisce immediatamente il regista, che ha sempre riservato a quel mondo, icona di un’epoca incamminata verso l’oblio, un interesse particolare. Subito ne richiede i diritti e, una volta ottenuta la liberatoria all’uso dell’originale, si dedica alla costruzione del gruppo teatrale di Carignano, partendo dal reclutamento degli attori. Gamna contatta direttamente molti dei protagonisti della grande stagione degli spettacoli dell’Oratorio: va a trovare a La Loggia Geppe Vassarotto; cerca e incontra Cesare Giacobina, Piera Meinardi, Pino Tamagnone e Rita Fagnani; costituisce un primo gruppo di collaboratori tecnici con i quali supportare la parte scenica; infine, reperisce i finanziamenti necessari. Il risultato definitivo è la creazione di una compagine di oltre cento persone, tra coloro che vengono recuperati all’arte drammatica e quelli che si avvicinano al gruppo per curiosità e interesse (tra cui anche molti giovani). La gran data è il 3 settembre 1977, quando vede la luce, sul sagrato del Duomo progettato da Benedetto Alfieri e dedicato ai SS. Giovanni e Remigio, la prima opera del Collettivo Teatrale Carignanese: Proibito invecchiare, autodramma di Vincenzo Gamna (che ne cura anche la regia), con la collaborazione della gente di Carignano. PROIBITO INVECCHIARE (1977) La vicenda rappresentata si avvia sul sagrato del Duomo, dove due pensionate commentano la morte di un loro anziano concittadino. Qui incontrano le operaie del lanificio che, prima di cominciare la giornata lavorativa, si offrono come coriste in chiesa nel canto gregoriano delle messe funebri, funzioni offi ciate un tempo di primo mattino. Introdotto il tema del lavoro, gli altoparlanti diffondono la registrazione di un’intervista alla decana delle lavandaie carignanesi, Milena Abrate, mentre sul portale scorrono le diapositive della donna intenta a svolgere la propria attività. Terminata la proiezione, entra in scena un’auto con due giovani sposi i quali, prima di partire per Spotorno, accompagnano all’ospizio di Carignano l’anziano padre di lui, il signor Luigi, residente in città ma originario della cittadina piemontese. Nel secondo atto si realizza un lungo flashback sulla cultura contadina e sul suo perno sociale, il regime patriarcale, che faceva dipendere dal vecchio il destino dei figli, dei nipoti e della roba. Infine, quando i giovani tornano a riprendersi Luigi, egli, che nel frattempo ha costituito solidi legami con gli amici di un tempo, rifiuta di tornare in città e decide di rimanere in paese, a casa di un’amica. Al termine dell’azione scenica, alcuni giovani tra il pubblico cercano di suscitare un dibattito sul tema, sostenendo la tesi provocatoria di convertire i locali in disuso della Bona (il lanificio di Carignano) in una “residenza assistita” per anziani. Le serate ottengono un successo imprevedibile al debutto: oltre al caloroso riscontro del pubblico (si sfiorano i mille spettatori a serata), anche la critica spende parole di lode. Colpisce particolarmente il tentativo di costruire quasi una nuova cultura popolare, l’ammirevole coinvolgimento delle forze locali in un contesto di elaborazione e fruizione collettiva, per far uscire la città dall’isolamento, riproponendo il teatro come vero e proprio servizio sociale. CARIGNAN D’ANTAN (1978) La fatica ben ripagata di Proibito invecchiare non placa la fame di teatro dei carignanesi, anzi l’accresce. Il meccanismo “senza ritorno” innescato da Gamna e dai suoi attori risveglia l’istinto teatrale di una città e, a distanza di un anno, il Collettivo Teatrale torna alle scene con Carignan d’antan. Il titolo riconferma la vocazione all’autodramma. Nel riecheggiare les neiges d’antan, cantate da François Villon nella Ballata delle dame d’un tempo che fu, si accenna a un catalogo ideale di persone e cose perdute nella caducità dell’esistenza umana e della memoria; tuttavia qui, nel ripercorrere ricordi vicini e lontani, l’ubi sunt non decreta la scomparsa defi nitiva, non affossa la storia ma la richiama dalle sue nebbie – dalla poltiglia delle sue nevi –, per ripresentarla intatta sulle scene. Il gruppo assume il nome ufficiale di Collettivo Teatrale Carignanese e si dota di una struttura organizzativa capace ed efficiente, che interagisce con una “commissione culturale” sostenuta dalle forze politiche e dalle ssociazioni locali, a testimonianza della eco profonda suscitata dall’esperimento di Proibito invecchiare, mentre i partecipanti materiali alla messinscena passano da cento a duecento unità. Gli obiettivi dello spettacolo si possono brevemente riassumere in alcuni punti programmatici: a) riscoperta delle tradizioni popolari, per tracciare il percorso formativo di una vera e propria cultura “alternativa”; b) riproposizione di alcune tappe emblematiche della storia locale, come la festa dei folli o Badia, la presenza e le vicissitudini della comunità valdese, la tragedia moderna dei partigiani del Pilone Virle, i roghi e le persecuzioni delle masche, le streghe; c) valorizzazione della piazza come luogo sociale e spazio d’incontro, di dibattito e di confronto tra esperienze diverse; d) recupero narrativo della vijà, la tradizionale veglia popolare del mondo contadino, che aveva luogo nelle stalle. Caratterizzato da una struttura a collage o a incastro, peculiare stilema drammaturgico del Collettivo Teatrale, lo spettacolo corre sul filo dei ricordi di una donna di Carignano – Rita del telefono – a cui si contrappone il “controcanto” colto della fi glia, recitato in italiano, lingua della modernità e della cultura scolastica. I monologhi delle due protagoniste si innestano in una cornice generale costituita da una vijà, il cui svolgersi apre e chiude lo spazio delle vere e proprie azioni sceniche. Alcuni blocchi narrativi si evidenziano nel percorso ambizioso della trama e culminano in alcuni quadri memorabili. Tra questi vale la pena citare l’excursus relativo ai roghi di donne perpetrati nella cittadina piemontese tra il 1493 e il 1495, suggellato da una processione di “streghe moderne” – Rosa Luxemburg, Anna Frank, Milena Sutter, Maria Rosaria Lopez, Ulriche Meinhoff, Giorgiana Masi – che salgono sul palco a liberare idealmente Giovanna D’Arco in procinto di essere arsa viva; una memoria relativa alle persecuzioni religiose carignanesi, incentrata sul caso del valdese Mathurin, bruciato con la moglie Giovanna nel 1560, che anticipa la cacciata dei suoi correligionari da Carignano e, infi ne, la celebrazione di un “rogo” recente, la fucilazione di otto partigiani presso il “pilone Virle”, nel 1943. Anche il ricordo del passato vicino, dei piccoli fatti d’un quotidiano quasi disperso, brilla di vitalità straordinaria. È il caso del memorabile duetto tra Geppe Vassarotto e Orazio Ostino nella riproposta del finale del dramma Satana, cavallo di battaglia della compagnia teatrale dell’oratorio negli anni Trenta. Dopo aver compiuto un furto in chiesa, con ancora i gioielli della Madonna in mano, il ladruncolo protagonista cade in un delirio di morte. Alle soglie di una conversione in extremis, inizia a recitare l’Ave Maria, prima di pronunciare il fatidico «credo». Vassarotto ripropone la sua interpretazione d’antan, gigioneggiando nella recita della preghiera e, come nel ricordo vero di quello spettacolo, il suggeritore dalla buca, affi nché la scena-madre finalmente si concluda, gli intima di morire con quell’invito: «Geppe meuir! Geppe meuir!», diventato proverbiale nel gergo degli attori della Cantoregi. All’ambizione del testo corrisponde la magnificenza dell’apparato: nei costumi, nelle musiche e soprattutto nella disposizione dello spazio scenico della Piazza, impostato su due enormi torri stazionanti agli angoli del sagrato, mentre al centro campeggia lo spaccato della stalla della vijà. Carignan d’antan si rivela uno spettacolo esemplare nel defi nire la necessità della lotta universale dei più umili per l’affermazione della propria dignità, nel tentare di difenderne il senso profondo. Se la polemica politica conferma l’immagine di un teatro che vuole incidere profondamente nel presente e non solo crogiolarsi tra le fotografi e nostalgiche e ingiallite del passato, l’impressionante macchina scenica, l’organizzazione minuziosa, il numero enorme di persone coinvolte, e il calore del pubblico stipato sulle gradinate certificano definitivamente la validità dell’operazione e il suo essere ormai espressione di una città intera e viva. ’NA SCUDELA ’D FIOCA (1979-1980) In una sequenza della vijà di Carignan d’antan si recitava la lettera di un carignanese emigrato in Argentina, nella quale si narravano la miseria e gli stenti di chi aveva intrapreso la via del mare in cerca di un presente migliore. Questo episodio fornisce lo spunto per l’elaborazione di ’Na scudela ’d fioca, il cui obiettivo è rappresentare l’epopea dell’emigrazione carignanese. In un’intervista precedente alla messinscena, Gamna defi nisce il nuovo progetto come «teatro documento», sottolineando come le vicende locali siano circoscritte al periodo che va dal 1880 (soppressione del convento delle Clarisse) al 1918 (termine della prima guerra mondiale), contraddistinto peraltro dal picco massimo dell’emigrazione carignanese verso le terre d’oltreoceano. La scelta di un periodo storico ben definito determina un’interessante novità drammaturgica: il percorso rievocativo non è più lasciato ai ricordi “sparsi” di uno o più narratori, ma si snoda parallelamente alle vicende della famiglia Peiretti (cognome tipicamente locale) che “esemplifica”, nella rappresentazione del quotidiano, l’effetto degli eventi storici sul mondo degli umili. L’ordito del testo si snoda in venti quadri, alternanti episodi corali, tableaux vivants, canti, scene recitate. L’inizio è folgorante: dall’emiciclo della facciata del Duomo emerge il quadro del Quarto Stato, accompagnato dall’Inno al Primo Maggio. Nel susseguirsi dei quadri narrativi si sovrappongono alcuni grandi temi: la vicenda delle Clarisse, che abbandonano il convento espropriato; il lavoro, passando dalla testimonianza dello sfruttamento di una bambina di dodici anni, anticipata dal canto Se otto ore vi sembran poche, al racconto di una manifestazione di donne davanti alla fabbrica di fiammiferi, durante gli scioperi e i tumulti del 1917 a Torino; l’emigrazione, emblematizzata dalla nave Sirio, la cui sagoma attraversa inquietante il proscenio-piazza, in uno scuotersi di teli azzurri a evocare il mare; la guerra e il suo portato di devastazione, culminante nel quadro vivente della “deposizione”, in cui mamma Peiretti tiene tra le braccia il corpo del fi glio morto in guerra. A dare forza centripeta a queste ispirazioni sono le vicende dei Peiretti: una famiglia di “vinti” che si sfalda lentamente, prima per l’emigrazione in Argentina del padre Lazzaro, poi per la partenza di Cesco per il seminario e, infine, per l’uccisione in guerra dell’altro figlio, Giovanni. Opposti al dramma degli umili stanno i “borghesi”, rappresentanza di chi non soffre e resta saldo ai propri “sporchi interessi”: sono loro il “vero nemico”, quello che marcia in testa alle truppe, che addita avversari fi ttizi; è la lotta sociale la più grande e infi nita delle guerre. È di un Peiretti, comunque, il passaggio più toccante: il monologo che il nonno (un Geppe Vassarotto poetico e straziante), infila per ottenere una ciotola di minestra da un qualche istituto di carità, recita dando sfogo ll’umiliazione dei poveri, racchiusa nel brodo dispensato da mani pietose: meglio allora una scodella di neve, almeno non sarebbe costata nulla. La notevole quantità di recensioni dedicate a ’Na scudela ’d fioca conferma la fama e l’affetto che supportano ormai il Collettivo Teatrale. Inoltre, allo spettacolo dedica alcune pagine Dante Cappelletti, nel suo saggio Teatro in piazza, a suggello dell’interesse destato dall’operazione carignanese anche all’interno del mondo accademico. Cappelletti sottolinea la novità popolare del teatro del Collettivo, inscrivendolo nell’empireo delle poche esperienze veramente popolari e “di piazza” della storia del teatro italiano più recente. Anche dal suo preciso resoconto conosciamo che, in limine alla messinscena, viene organizzato un convegno dal titolo Teatro popolare: esperienze a confronto, le cui uniche memorie – soprattutto quelle legate all’intervento di Gian Renzo Morteo – sono conservate, appunto, nel preziosissimo saggio di Cappelletti. Infine, nel 1980 fu effettuata dalla neonata Rai Tre una trasmissione intitolata: ’Na scudela ’d fi oca, autodramma di una città, che contiene la registrazione dei quadri principali dello spettacolo, con le interviste ad alcuni attori e organizzatori curate da Piero Bianucci. ’Na scudela ’d fioca chiude un’epoca, racchiusa tra l’entusiasmo degli esordi e lo spirito pionieristico della scoperta continua di nuovi territori da esplorare. Dal 1981 il gruppo si chiamerà Cooperativa Cantoregi e Aldo Longo affi ancherà Gamna nella scrittura dei testi, determinando una “svolta letteraria”, capace però di conservare tutte le caratteristiche squisitamente popolari fin qui evidenziate dal lavoro del Collettivo Teatrale Carignanese. Tratto dal libro “In cerca di un paese” di Salvatore Gerace e Erika Monforte; Ed.SEB 27 ; 2006
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