LE MAN VEUIDE (1981-1982) L’architetto Pietro Maria Cantoregi, nato a Varese in una non precisata data del 1700 e morto a Torino in un altrettanto ignoto anno del 1800, aveva progettato un edificio di cui rimane la memoria di alcuni disegni, solo uno dei quali autografato. La struttura, che doveva sorgere alla svolta della via Maestra verso la Porta Mercatoria, dopo il convento delle Clarisse (area prima occupata dalla manifattura Bona, ora sede del Comune di Carignano), quasi sicuramente era stata commissionata dalla Confraternita dello Spirito Santo, i «Battuti Bianchi», affinché i proventi di «recite da eseguirsi in esso di onesti temi per mezzo di recitanti cittadini» servissero a rinsaldare le casse della Confraternita stessa. Probabilmente furono le condizioni politiche successive al 30 luglio 1792 (data segnata su una tavola a firma del misuratore Piola) a impedirne la costruzione dell’Ospizio (una strepitosa Piera Meinardi), la baruffa al mercato della scena successiva, o il discorso tra Frichieri e Giudizio alla fine del primo atto. Nasce in quest’occasione, oltretutto, la scelta operativa di essere «teatro di servizio e di sostegno», se si considera che sono chiamati a recitare molti anziani all’epoca residenti nel vecchio istituto vittoniano, capitanati da Filippo Lomello. Un intento di “animazione” quale risposta concreta a un bisogno d’azione, come scelta di veicolare il richiamo all’identità locale attraverso chi quell’identità meglio conosce e meglio rappresenta. Un chiaro intento sociale e, insieme, una scelta di verità. Soprattutto l’enuclearsi di una dedizione tenace alle esigenze dei gruppi più deboli, avviato nel 1982 e proseguito fino a oggi, con gli ex degenti della casa di cura psichiatrica di Racconigi e con gli ospiti della Casa di reclusione “La Felicina” di Saluzzo. Anche la critica rileva la portata memorabile dell’evento; è interessante segnalare lo stupore di molti recensori per l’efficace organizzazione scenica e per la scoperta di un “mondo” teatrale vivo e avvincente. Per tutti valgono le parole di Gina Lagorio: «[…] la gente ha risposto come io non pensavo che potesse rispondere oggi. Sono degli attori naturalmente felici. Devo dire, fuori dei denti, che mi sono piaciuti più di tanti sofisticati e adulterati attori professionisti. C’è una grazia spontanea, da parte di chi recita, che si sposa con intelligenza alla regia, e il risultato è molto piacevole. Dal punto di vista scenografico, poi, lo spettacolo è molto ricco: le scenografie, i costumi sono di un gusto sicuro. Veramente una sorpresa». IL CARMAGNOLA. TRAGEDIA POVERA, DI COMICI E CONTADINI (1983) Nel 1983 un gruppo di organizzatori carmagnolesi decide di celebrare il sesto centenario della nascita di Francesco Bussone, più noto come il conte di Carmagnola, proponendo a varie compagnie teatrali di mettere in scena integralmente l’omonima tragedia di Alessandro Manzoni. Allo scopo vengono contattati vari artisti, ma gli unici che resistono, al termine di una lunga serie di trattative e discussioni, riuscendo a imporre anche una propria “linea teatrale”, sono i carignanesi della Cantoregi. Gamna e Longo accettano di misurarsi con l’originale, ma propongono un adattamento funzionale, dimostrando sicura conoscenza dei gusti del pubblico (in diffi coltà nella fruizione di un’opera squisitamente letteraria) e consapevolezza dei propri limiti, poiché non sarebbe stato facile per attori abituati a esprimersi in piemontese trovare la giusta misura in un italiano da scandirsi tra gli endecasillabi dei dialoghi e i decasillabi del coro. Per compiere l’osmosi tra popolare e letterario gli autori ricorrono a una trovata metateatrale: una compagnia girovaga d’attori, bloccata durante la peste del 1834 nelle campagne di Carmagnola, per restituire il favore dell’ospitalità ai contadini, decide di allestire una recita de Il conte di Carmagnola, alla cui prima assoluta del 1828 il capocomico aveva partecipato. Gli attori rappresentano bene l’incrocio di due mondi paralleli: da una parte quello dei bisogni quotidiani, della povertà, della fame, della lotta per la vita; dall’altro quello della letteratura, delle storie figurate, dei testi che si devono rappresentare per vivere; e per questo loro status particolare sono malvisti dai contadini, abituati a guadagnarsi il pane con il lavoro delle mani e non con le parole. Però, il pretesto della compagnia girovaga permette l’irruzione del letterario nella sfera della vita quotidiana, ne giustifica la convivenza, autorizza una recitazione non ispirata ai canoni del grande attore ma fortemente condizionata dalle risorse umane disponibili. Solo in tale cornice è possibile giungere alla clamorosa recitazione del coro della battaglia di Maclodio, con le contadine – le più formose – abbigliate con bacinelle in testa a mo’ di elmi e il capocomico che, al parossismo della disperazione, vede apparire un quadro di Paolo Uccello, con lance e corpi a plasmare il furore della contesa, mentre una voce fuori campo (quella di Edmonda Aldini) recita i versi dal 25 al 36. Nel contenitore metateatrale che sovverte le regole, Cantoregi agisce scomponendo storia e letteratura, in un delicatissimo e misurato equilibrio tra l’omaggio affettuoso, la provocazione e la parodia; il lavoro sull’originale è confermato dalla scelta di preferire l’approfondimento di episodi citati solo nella notizia storica premessa al testo, alla tragedia stessa. In questa ottica straniata, il Carmagnola diventa un’opera aperta che accoglie gli stravolgimenti dei protagonisti popolari, ospitando, in una sorta di antologia d’autore, la contaminazione dagli altri capolavori: ad esempio da I promessi sposi per quanto concerne la peste, il cordone sanitario o il tratteggio di alcuni personaggi – gli innamorati Lorenzo e Lussiòta, o don Temporalis, l’alter ego carmagnolese di don Abbondio –; mentre, quando la moglie di Bussone, implorata inutilmente la grazia al padre per il marito, si scioglie in un pianto dolente, lo fa con le parole del coro di Ermengarda. La critica recepisce la complessità dell’operazione, la contraddittorietà delle scelte, gli esiti talora incerti, associandoli comunque alla lode per la fervida inventiva dei dilettanti carignanesi. Anche tra gli autori, interpellati a posteriori, regnano giudizi diversi sullo spettacolo andato in scena per la prima volta a Carmagnola, in piazza S. Agostino, il 18 e 19 giugno 1983, e tuttavia la consapevolezza di aver contribuito a un evento eccezionale, in parte atipico rispetto agli stilemi originali del gruppo, agli intenti culturali e ai gusti, ben educati negli anni, di un pubblico affezionato ed esigente. L’ERBO DLA LIBERTÀ (1986) L’invasione di campo cominciata nel 1983 a Carmagnola continua a Pancalieri nel 1985, quando Gamna, affiancato per la prima volta da Eugenio Vattaneo, contribuisce all’autodramma L’odor dla menta. La Cantoregi è all’apice della sua fama, anche nei paesi limitrofi , ma è indubbio che il gruppo si stia lentamente avviando verso una crisi irreversibile, che si concluderà dopo il Don Bosco con lo scioglimento della Cooperativa. L’erbo dla libertà, fatica datata 1986, presenta ancora i crismi della grande produzione. L’opera infatti si inserisce in un progetto culturale e drammaturgico di grande respiro, cioè la prosecuzione di una trilogia dedicata al Settecento carignanese, inaugurata da Le man veuide, e incentrata rispettivamente sui poveri, i contadini e i nobili. La ricerca storica a monte è completata da uno studio specifico sul repertorio delle musiche popolari dell’epoca che, unito all’esecuzione dal vivo, conferisce allo spettacolo i toni di un vero e proprio «melodramma popolare»; la lingua, a coronamento di un impegno a tutto campo, si caratterizza per una particolare cura e per la scelta di un «dialetto crudo ed essenziale, appena impreziosito da vocaboli desueti, che assai si discosta dalla tradizione delle commedie dialettali di maniera». Non mancano, infine, contributi “colti”, dal Bernanos de I dialoghi delle carmelitane a Goya. L’ispirazione del testo nasce dal ricordo dell’impianto di due alberi della libertà a Carignano, all’epoca delle grandi rivolte contadine, seguite allo scoppio della Rivoluzione Francese e all’arrivo delle truppe del Direttorio in Piemonte, nonché dalle vicende ulteriori, comprese tra l’ascesa di Napoleone e la restaurazione austriaca. Fin da subito, dentro il progredire della storia, si intravvede un discorso sul relativismo del potere, esposto con disincanto dai molti personaggi di diversa estrazione e fede politica travolti dalla fi umana dei rivolgimenti storici. Il dramma dei vinti trova in due personaggi, Orsola e don Gioan, la sua incarnazione più dolorosa. Alla prima i francesi fucilano il marito e gli austriaci violentano la figlia. Il gesto che prorompe dal suo cuore quando, recuperata la veste della figlia suicida nel Po – come la dolente Ofelia di quell’altra mirabile parabola sul potere che è l’Amleto – la getterà ancora fradicia d’acqua e d’infamia in faccia al comandante austriaco, è la summa di una secolare condizione di subalternità, e testimonia tutto il dolore di un popolo inchinato al cospetto di qualsiasi ordine costituito. Il secondo, il cui diario accorda il fluire della trama, prende a suo pericolo le parti dei deboli: celebra, contro le regole, il funerale della figlia suicida di Orsola e consacra il pane che i soldati austriaci vorrebbero requisire ai contadini. Eppure, come gli scrive il Vescovo: «Vi sono dei momenti in cui la chiesa ha il dovere di nascondere il suo volto pietoso per mostrare quello aggrondato e severo dell’autorità. Neppure le buone opere sono possibili senza disciplina». E la disciplina è il patibolo su cui, nudo come Cristo, il prete sarà costretto a salire per l’impiccagione. Nella scena finale quell’albero della libertà piantato in piazza, trasformato in forca, bagnato dal sangue innocente di don Gioan, tornerà a rifiorire, germoglierà come una speranza che cerca di crescere anche sulla rovina e sulla vacuità dei simboli del potere. DON BOSCO. BALLATA POPOLARE (1988) Il 1988, centenario della morte di don Bosco, segna il tentativo di Cantoregi di proporre su scala nazionale il proprio discorso artistico, inserendosi all’interno delle celebrazioni dedicate al santo. La Cooperativa è quasi sull’orlo dello scioglimento: pertanto decide di collaborare con il Teatro Nuovo di Torino e creare un sodalizio dal nome Teatro della tradizione popolare, il cui fallimento artistico ed economico sancirà tuttavia la crisi definitiva. Il testo, inizialmente, doveva intitolarsi La caplina ’d don Bosc, però Gamna, consapevole di non realizzare più un autodramma, vuole un professionista per interpretare la parte del santo piemontese. Viene contattato Alberto Lionello, disponibile ma con un ingaggio economico fuori portata, cosicché il ruolo viene attribuito a Duilio del Prete. Questi, pretendendo il leggìo in scena, determina la modifica del copione, con lo sdoppiamento tra un protagonista anziano, il narratore che ricorda e medita sulla sua biografia (Del Prete), e il suo alter ego giovane che agisce nei quadri recitati (Bruno Maria Ferraro). La trama oscilla tra il piano dell’azione e quello della memoria e, in questo sovrapporsi di prospettive, ripercorre le tappe del percorso sociale e di fede di Don Bosco. Sullo sfondo della storia ufficiale (Napoleone a Sant’Elena, l’avvento di Pio IX, la disfatta di Novara) e della vita di una Torino popolare, dove imperversavano le coche, le bande rivali di ragazzi, si rivive il passaggio del santo da cappellano dell’Opera per le giovani traviate ad animatore e redentore di adolescenti problematici. Ostacolato dalle remore dei benpensanti (il prefetto Pejrani, la marchesa Giulia di Barolo) e dalla diffidenza dei suoi discepoli, egli troverà conforto nella fiducia e nell’affetto di tanti ragazzi, primo fra tutti Matteo, che abbraccia la proposta di cambiamento, fino a sognare una vita “normale”, con tanto di matrimonio e lavoro stabile in un cantiere edile. Lo sciopero finale degli operai, disperati per l’esiguità del salario, interrotto con violenza dalla polizia, porta alla morte di Matteo, definendo irrimediabilmente l’inconciliabilità tra le aspirazioni nobili e sante e la brutalità degli interessi di parte. Ma anche in questo caso, il don Bosco degli umili, come lo hanno voluto Gamna e Longo, pensando alla figura contemporanea di don Ciotti, non esiterà a schierarsi con i deboli, sfilando accanto agli amici di Matteo nel corteo funebre conclusivo19. Sebbene anomalo rispetto al percorso degli autodrammi, pur con un significativo ricorso al professionismo – dall’interpretazione di Del Prete ai costumi di Eugenio Guglielminetti –, Don Bosco costituisce un’esperienza importante per gli attori della Cantoregi. Fondamentale è il rapporto con Del Prete, che guarda con stima e rispetto attori dediti al teatro per la sola passione, spesso anche dopo una giornata di duro lavoro; d’altra parte, nel confronto con professionisti e semi-professionisti, i dilettanti, in primis Dino Nicola (Sberla) e Dario Geroldi (Matteo), non sfigurano, testimoniando che la tecnica di un attore si affina spesso anche solo calcando il palcoscenico. Il senso di profonda «genuinità», indotta dalla grande partecipazione emotiva degli attori, garantisce buoni riscontri di critica e pubblico; eppure, quest’ultima scommessa vinta non riesce a impedire lo scioglimento del gruppo. La nuova Cantoregi, che nascerà nel 1991, guarderà spesso a questo periodo come a un modello ideale. Ma il ricordo di un’epoca caratterizzata da passione popolare, coinvolgimento di masse e magnificenza degli spettacoli, solo in poche occasioni diverrà realtà, collocandosi anch’esso nella splendida e dolente galleria delle immagini di un passato glorioso e irrevocabile. Tratto dal libro “In cerca di un paese” di Salvatore Gerace e Erika Monforte; Ed.SEB 27 ; 2006
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