QUARTA FONDAZIONE Nel 1994 la Cooperativa assume lo status di associazione. L’esordio della neonata compagine è segnato da Vivere. Una famiglia nel ’43, spettacolo ispirato alla Resistenza e dedicato ai martiri del Pilone Virle, nel cinquantenario dell’eccidio già celebrato in Carignan d’antan e ne La bella primavera. Nel testo del 1994 si cerca di tracciare il percorso esemplare di una famiglia disgregata dall’incalzare degli eventi della guerra, nei giorni convulsi che vanno dal 25 luglio all’8 settembre, fino all’avvio della lotta partigiana. Emerge drammaticamente, nello sviluppo di vicende e psicologie differenti, la dicotomia di due scelte opposte, legittime e dolorose: quella del padre, figlio di una maestra fascista dal fervido credo mussoliniano e repubblichino, che torna lacero e confuso dalla guerra e sceglie di rifugiarsi in Svizzera; e quella della madre, che si ritira sui monti e aderisce alla lotta partigiana. Sospeso tra queste opposizioni inconciliabili, tra la viltà e la virtù, i sogni infranti e la speranza di un nuovo mondo, è il figlio, che registra e accumula memorie, dal cui scaturire traggono vita i quindici quadri della trama. Molti sono i riferimenti culturali di questa epopea familiare della Resistenza: il Fenoglio di Primavera di bellezza e il Pavese de La casa in collina; addirittura Radio Days, di alleniana memoria, indotto dalle canzoni dell’E.I.A.R., quelle del regime e non, diffuse da una radio gigantesca che campeggia sul fondo della Chiesa della Misericordia. E sarà il lapsus volontario, la paronomasia che trasforma «Vincere», imperativo categorico del fascismo, in «Vivere» (con la mediazione di una straordinaria canzone d’epoca), a segnare il senso più profondo dei ricordi del fanciullo ormai uomo, a sintetizzare la volontà di rinascita di un popolo intero, emblematizzata nel finale dal sorgere, colmo di speranza, di un tricolore composto di stracci. Vivere è uno spettacolo non valorizzato dalla critica come avrebbe meritato, malgrado i quadri recitati con particolare intensità, il lavoro disciplinato delle ventisei comparse in scena, la vena degli attori, la vibrante voce fuori campo di Giovanni Moretti, la cura meticolosa della regia, della psicologia dei personaggi e dei particolari storici. Forse si avverte talora la mancanza della piazza, poiché è evidente che la tecnica, la fantasia e la passione della Cantoregi, esiliate dal loro contesto naturale, non esplodono in tutta la loro pienezza. Ben diverso, in termini di potenza espressiva e di concorso di pubblico, è Il giorno di San Giacomo, in scena a Borgo Salsasio di Carmagnola solo un mese dopo Vivere. Nato al termine di un laboratorio tenuto presso il Liceo Classico “Baldessano”1, corroborato dal fondersi di due comunità «intere e vive», quella scolastica e quella dei borghigiani di Salsasio capitanati dal parroco-reduce don Bella, Il giorno di San Giacomo, ispirato al rogo del borgo perpetrato da fascisti e repubblichini il 25 luglio 19442, può infatti definirsi un vero e proprio autodramma, sia per il richiamo alla storia locale, sia per il numero di partecipanti, oltre trecento, tra gli allievi del Liceo, i testimoni di quell’esperienza dolorosa, i nuovi residenti e finanche i bambini dell’asilo. Nel progredire dei nove quadri, c’è posto anche per alcuni ammiccamenti al precedente Vivere (dalla canzone eponima al bandierone di stracci issato nel fi nale) e a Il Carmagnola (la battaglia di Maclodio simbolo dell’inutilità della guerra), mentre la figura storica di don Bella prosegue e completa la già ricca galleria di sacerdoti illuminati, ispirati da fede ed eroismo. Ma soprattutto si irraggia una nuova vitalità, stimolata dalla speranza di aver trovato fi nalmente un luogo, una piazza e un popolo, e di aver impresso, trasferendosi “culturalmente” a Carmagnola (anche attraverso la prosecuzione del laboratorio teatrale con il Liceo “Baldessano”), una svolta decisiva nella propria storia. SOLE E NEBBIA Mentre il nucleo storico degli attori si cimenta nella riproposizione di Le signorine Settembre provano il Gelindo, probabilmente lo spettacolo più replicato della Cantoregi, prende forma il progetto di un nuovo autodramma, Nebbia, pensato e realizzato nuovamente con il concorso degli abitanti di Salsasio, costituitisi nel “Comitato il giorno di San Giacomo”. Nebbia è, almeno per ora, forse l’ultimo grande autodramma strictu sensu della Cantoregi. Vi sono tutti gli ingredienti della tradizione più classica: oltre centotrenta attori, uno spazio cittadino (il campo di calcio dell’oratorio della chiesa di San Francesco), una vicenda che, pur non riferendosi a fonti storico-documentarie, appartiene al vissuto quotidiano di molte persone e allo specifico del nucleo di abitanti addensato attorno alla chiesa del patrono d’Italia. Ripercorrendo le tappe dell’emigrazione dal sud al nord, fenomeno che si estende nel presente a un’accezione mondiale, gli autori Gamna, Vattaneo e Pautasso possono recuperare anche ispirazioni precedenti, come ad esempio l’emigrazione dei piemontesi a inizio secolo verso le lande d’Argentina, o un brano dalla lettera Camminare insieme del Cardinale Michele Pellegrino, manifesto etico anche per l’attività di Cantoregi. Ad accompagnare arrivi e partenze, al porto di Genova o alla stazione di Torino, la nebbia, segno climatico locale che assurge contemporaneamente a simbolo dell’ignoto nel quale si inoltrano gli emigranti e dell’indifferenza che spesso accoglie i nuovi arrivati, coltre fisica e psicologica difficile da fendere, barriera spesso troppo densa da attraversare, cortina di pregiudizi solidi e impalpabili a impedire l’integrazione fra persone. È il feeling tra attori, però, ad accendere emozioni; l’eccezionale profusione di energie e invenzioni a trasmettere un senso elettrizzante di rito e festa popolare: una condizione ispirata, un’esplosione di gioia collettiva, che si attendeva da anni. La messinscena, incentrata su una struttura mobile di latta ondulata, brillante creazione del sempre più prezioso scenografo-regista Koji Miyazaki, scorre come un fiume in piena; in un solo respiro si sciolgono le vicissitudini di una famiglia emigrata dal sud, dal distacco doloroso all’arrivo pieno di incertezze, dalla ricerca della casa e del lavoro alla morte del figlio più giovane in cantiere, fino al matrimonio della figlia con un ragazzo piemontese, a sfidare la ritrosia della società e delle rispettive famiglie. E a completare l’affresco popolare, che affonda le sue radici nella trasformazione industriale dell’Italia del boom economico, una galleria di personaggi indimenticabili, tra cui spicca la figura di don Andrea, prete operaio del quartiere degli immigrati meridionali, con il sogno, quasi manzoniano, di creare integrazione attraverso l’edificazione di una chiesa, per celebrare la nuova comunità attraverso il rito religioso. Non mancano le scene da ascrivere al catalogo dei memorabilia; almeno quattro di queste meritano una menzione: l’arrivo nebbioso nella città; il «compianto per la morte di Astianatte» di un’Ecuba magistralmente resa da Elsa Abrate; la confessione della nonna in lingua originale, con don Andrea che ne coglie il senso senza gli strumenti del lessico ma solo con l’istinto della fede; la presentazione dei consuoceri prima del matrimonio tra i giovani, giocato sulle reciproche diffidenze e i reciproci sospetti, recitato in un clima di tensione scenica, e risolto in comicità sublime, anche grazie alla sapienza attoriale di Orazio Ostino. E, infine, il refrain-tormentone di Mina, quel «nessuno, ti giuro nessuno» cantato in un crescendo che accompagna il primo graffito amoroso di Lorenzo, apparso in bicicletta; e, ancora, la prima fuga dei fidanzati, su una Vespa, e la partenza per il viaggio di nozze in Cinquecento. Fino a quando, da una nuova coltre di nebbia, appaiono nuove figure di emigranti in cerca di uno spiraglio di sole, non si sa bene quanto lontano o quando visibile. FINESTRE E CORTILI Sono più di duemila gli spettatori che assistono alla prima edizione di Nebbia, e Carmagnola è ormai la nuova patria di elezione della Cantoregi. La stessa Amministrazione Comunale è colpita dal concorso di pubblico delle repliche, al punto da commissionare al gruppo un progetto per l’anno successivo. Obiettivo della collaborazione è animare cinque luoghi storici della città, recuperati funzionalmente da una ristrutturazione recente, attraverso specifiche messe in scena teatrali. L’esito del lungo lavoro s’intitolerà Una finestra sui cortili. Sarà non solo l’occasione per riportare l’attenzione su alcuni degli scorci più intimi della città, ma strumento per rievocarne il potere immaginifico e ridare vita e voce a ombre e parole incrostate nei muri. Una finestra che si apre a sguardi e memorie, attraverso la suggestione del teatro. Gamna e Miyazaki, rispettivamente regista e scenografo, si profondono, assieme a Marco Pautasso ed Eugenio Vattaneo, gli altri curatori del progetto, nella sfida singolare di associare ai cinque luoghi altrettanti spettacoli, brevi e nello stesso tempo incisivi: ne nasce una forma particolare di drammaturgia, modellata non più sulla misura espansa della coralità ma sull’intimità raccolta, anche in senso temporale, del radiodramma. La composizione finale non disdegna un senso complessivo di serialità degli episodi, diversi come ambientazione storica, ma tenuti assieme dal filo ideale costituito dalla storia cittadina e incarnato da una coppia di materassai (Ij materassè) che, usi a frequentare le case della città, veri e propri custodi della memoria, introducono ciascuna pièce ripercorrendo le vicende di quei cortili. Tuttavia, questa formula esalta la fruizione singola di ogni “capitolo”, il senso del “ricominciare” ogni volta, il porsi in attesa dell’agguato delle mirabolanti macchine sceniche, delle ambientazioni suggestive o dell’incanto poetico dei dialoghi. Anche la scelta di “genere” è varia. “Nidificate, apes” di Igor Longo è un giallo, pensato in un tardo Medioevo percorso da fremiti di inquietante rinnovamento – occultismo alchemico, panteismo, razionalismo –, e scritto strizzando un occhio a Umberto Eco e l’altro ad Agatha Christie. “Il cielo parato a lutto”, di Mario Monge è un dramma storico, ispirato alla peste di Carmagnola del 1522, che narra le vicende di Bianca, una giovane abbandonata dalla famiglia che ne teme il contagio, accudita dalla serva, dal garzone e dalla sorella, la quale è tornata inaspettatamente, dopo un triste esilio seguito all’amore “blasfemo” con un ugonotto. Un memoriale è invece “Angelo bell’angelo” di Eugenio Vattaneo, in cui un’assistente sociale cerca di ricomporre le tessere della biografia di una sua paziente muta da anni, dopo averne ritrovato il diario risalente ai tempi del noviziato in orfanotrofio. Con Le due madri di Gamna, Aldo Longo, Marco Pautasso ed Eugenio Vattaneo (forse il più intenso tra i cinque appuntamenti) si passa al dramma intimista, dedicato al tema delle vite parallele vissute su fronti opposti da molti protagonisti del periodo della Resistenza – già evocato in Vivere –, trattato con una sensibilità che anticipa il dibattito storico inaugurato proprio in quegli anni, senza scadere nella retorica o nella superficialità di molte interpretazioni recenti. Chiude, infine,”Arpa d’amore”, un dramma sentimentale, giocato sul ricordo di un amore con una giovane arpista, vissuto in tempo di guerra da un distinto signore, tornato durante gli “anni di piombo” a visitare la casa della propria gioventù. LE SCUOLE DEL TEATRO L’anno scolastico 1996-97 è dedicato in larga parte a laboratori didattici. L’attività scolastica si può defi nire una diretta emanazione del “metodo” con cui Cantoregi ha prodotto i primi autodrammi. Infatti, esaurito l’afflato popolare del “teatro in piazza”, la scuola rappresenta un approdo inevitabile per la continuità del progetto, poiché lo rende indipendente dalla disponibilità di un grande numero di attori, assicurando comunque un concorso altissimo e sicuro di giovani allievi interessati al teatro. Cantoregi ritrova tra gli studenti il senso della comunità, l’idea di un linguaggio che unisce i singoli membri in un’idea universale; semplicemente, qui, il collante non è più rappresentato dalla storia – ufficiale o popolare, orale o documentaria –, quanto piuttosto dalla letteratura. Ed è infatti un classico, l’amato Manzoni de I promessi sposi, a fornire lo spunto per il primo dei due grandi spettacoli “scolastici”, il De peste, quae fuit 1630. Nato a coronamento di un laboratorio tenuto presso il Liceo Scientifico di Carignano nell’anno 1995-96 6, il De peste, in scena nel settembre 1996, rappresenta il passo preliminare allo straordinario IT174517, che costituirà il culmine di questa esperienza. Nel saggio carignanese curato da Gamna e Pautasso gli otto quadri del testo prevedono l’intrecciarsi di alcune scene cardine del romanzo – la deposizione di Cecilia, la carestia, la processione per scongiurare il contagio e la ricerca nel Lazzaretto di Lucia a opera di Renzo, la pioggia liberatrice – con il mito di Orfeo, presentato anche nella partitura di Gluck, e con scene di ambientazione moderna, a definire una parabola finale che associa la peste al flagello dell’AIDS. Non manca nemmeno una eco da Camus, se si pensa che la pestilenza appare, oltre che come un contagio fisico, come una malattia dell’anima, il pretesto per isolare l’uomo in una solitudine carica di pregiudizi, almeno finché la consapevolezza della propria condizione di comune sofferenza – l’esperienza estrema del Lazzaretto – non provoca un riscatto delle coscienze, una riaffermazione di dignità e di umanità. Simile per tematiche e per metodo operativo, ma più intenso e completo, soprattutto a livello scenico-spettacolare, è IT174517, andato in scena a Carmagnola (area Vergnano, ex area Silver) il 14 e 16 giugno 1997. Il numero di matricola del titolo, quello che fu assegnato ad Auschwitz a Primo Levi – cui è dedicato lo spettacolo nel decennale della morte – evoca la tragedia dei Lager come descritta durante il processo di Francoforte del 1963-1964 e riportata ne L’Istruttoria di Peter Weiss, testo di riferimento adattato per questo saggio del Liceo Baldessano di Carmagnola. Un vagone ferroviario da cui vengono scaraventati all’inferno i deportati e una pedana segnata al centro da una stella di David gialla fungono da scenario per i dieci quadri del copione (nove canti più l’introduzione), strutturati come un lungo percorso a ostacoli, nel quale il superamento di una prova concede, prima che la speranza di salvezza, la certezza di una fine ancora più obbrobriosa. Nel finale, mentre Ferruccio Maruffi , sopravvissuto al campo di Mathausen, legge il Canto dei morti invano di Primo Levi, i quarantadue protagonisti rientrano nudi nel vagone, come se fosse una camera a gas, per riuscirne con l’apparenza di ombre inquietanti con in mano un lumino votivo. L’enorme pregio dei nove canti (della banchina, del lager, dell’altalena, della possibilità di sopravvivere, della fi ne di Lilli Tofl er, dell’Unterscharfuhrer stark, della parete nera, del fenolo, del gas e dei forni) è la presentazione della realtà del campo di sterminio attraverso una speciale attenzione ai particolari: è dalla sommatoria dei dettagli del dolore e delle torture (fin dalle prime umiliazioni sulla banchina della stazione) che emerge l’insensatezza e la vergogna del lager; non è solo la scientifica persecuzione, ma la dedizione quotidiana al delirio e all’orrore a sgomentare gli spettatori nell’itinerario dantesco – anche questo modello richiama la scelta del canto – che culmina nella disintegrazione definitiva dei forni crematori; è, infine, proprio attraverso il particolare, che Cantoregi riesce a rendere onore a tutti gli umiliati e offesi a morte dal nazismo: ebrei, zingari, bambini, perseguitati politici, omosessuali e donne, cui viene dedicato il dolente e delicato canto della fine di Lilli Tofler. L’esito va oltre quello previsto del saggio; lo spettacolo s’impone per rigore scenico e profondità tematica, grazie all’atteggiamento privo di retorica – anche scolastica – e per la lucida e tenace volontà di «parlare di ieri per comprendere l’oggi» e di avere voluto questo allestimento «perché la memoria non sia una condanna, ma una speranza», fino a proporsi come un «teatro intimamente necessario». FRENESIE DI FINE SECOLO Il periodo compreso tra il 1997 e il 1999 vede un susseguirsi intenso di laboratori produzioni, allestimenti, animazioni, proposti misurandosi spesso con condizioni differenti, esigenze dissimili e budget spesso limitati, con un obiettivo generale che sembra privilegiare l’esplorazione di “sentieri marginali” e il ritorno alla sperimentazione drammaturgica. Seguendo una scansione cronologica, si passa dall’allestimento occasionale di Fecondazione dell’acqua, percorso a ritroso nella memoria e nella liturgia del Sabato Santo, a Storie di mezzanotte, un breve recital che, ispirandosi alla tradizione cara della vijà, ripercorre la storia ventennale del gruppo, grazie a un collage di brani dagli spettacoli storici, per giungere a Gocce d’acqua, un testo di Pier Francesco Poggi con due soli attori protagonisti che, nella segregazione di una cella, inscenano una “singolar tenzone” dialogica, nella speranza di poter scacciare i fantasmi della reclusione e «innescare nuove speranze». Un discorso a parte merita Il segno, in scena presso il Cortile del Seminario Metropolitano a Torino, durante le manifestazioni per l’ostensione della Sindone. I presupposti dei quattordici quadri di Giacomo Bottino ripercorrono le strade dell’autodramma più classico: un’ispirazione storica – i dialoghi delle clarisse di Chambery impegnate nel rammendo della Sindone danneggiata dal fuoco due anni prima – filtrata dalla passione popolare. Il lavoro, che evoca il romanzo storico, amalgama realtà sceniche differenti, dalla recitazione alla danza, fino all’esibizione del corpo dei Pompieri che simulano il salvataggio del sacro lino dal fuoco – come era avvenuto nel tragico rogo della Cappella guariniana l’anno precedente. Una bella occasione, gestita con sapienza registica e organizzativa, resa ancora più intensa dalla magnificenza delle luci e delle musiche, dalla voce suadente di emozioni di Daniela Calò e dall’ottima recitazione di Elsa Abrate, Alessandra Lappano, Susanna Paisio, Riccardo Lombardo, Chiara Rosenthal. L’ALBA RADIOSA DEL NUOVO MILLENNIO Il rilancio defi nitivo della Cantoregi avviene con “Voci Erranti”, nel giugno del 2000. Abituata a percorrere strade diffi cili, erte di pericoli teatrali, a sfidare l’incomprensione con l’anticonformismo, la compagine sceglie di misurarsi con la realtà degli ex degenti di un Ospedale Psichiatrico. Oramai sappiamo che i saggi finali stanno a un laboratorio specifico (sia esso con handicappati, allievi delle scuole, malati mentali) come gli autodrammi stavano a una comunità intera; e pertanto costituiscono un tassello ulteriore, se non definitivo, del percorso intrapreso negli anni Settanta, ancora oggi capace di dare parole al silenzio della Storia e, laddove quest’ultima tace, rovesciandone la prospettiva, alle tante storie dei singoli che cercano una voce. Il merito di Cantoregi, ancora una volta, risiede nel non gerarchizzare le forme espressive, nel sapersi e volersi confrontare con tutti i generi teatrali possibili, imprimendo ai testi e alla cura scenica un marchio inconfondibile. Voci Erranti, che deve il titolo a un verso di Ivano Fossati e che si ispira a “I graffiti della follia” di Ennio de Concini, si potrebbe definire un autodramma soggettivo, giocato tra memoria e invenzione, illuminato da un’ispirazione possente, catalizzato dalla miscela sublime di testi e contesti, talvolta difficilmente proponibili fuori da quell’istante, da quei luoghi resi magici dal teatro. In un’arena senza tempo, delimitata da panchine bianche e progressivamente allagata di acqua, alla quale nel finale gli attori affideranno delle barchette di carta, ultimo messaggio di disperazione o di speranza, si muovono i dottori e gli infermieri a scandire i ritmi ossessivi della terapia, e i pazienti, che recano segni bianchi e rossi sul viso, a suggerire la similitudine con una riserva indiana. Tra le figure che emergono dalla routine alienante della cura, una ragazza che sente le voci, subito identificata con Giovanna d’Arco; un ragazzo che tenta periodicamente il suicidio; un malato bambino che lancia ripetuti e inascoltati appelli alla madre, e la poeticissima figura di Berretta che, traumatizzato dalla guerra, non si toglie il cappello per il timore che la morte possa entrargli dalle orecchie, nonché altre creature del dolore e dell’isolamento, tutte riassumibili nella battuta di una di loro, secondo cui «La mia malattia è un mistero. Un mistero conosciuto solo da Dio». Eppure queste voci erranti cercano di testimoniare la propria esistenza, cercano una dignità, una vita, un mondo da cui l’Ospedale li ha esiliati e la disciplina del silenzio allontanati; e la cercano senza nascondere la verità, così intensamente che: «si sente il dolore e l’umiliazione della lingua negata, qual pozzo assoluto di solitudine che è la malattia mentale, troppo grande o troppo profonda o troppo diversa per essere raggiunta da mani umane». Non solo la denuncia, che rinverdisce idee e fervori della Cantoregi d’antan, ma anche il tocco delicato del sentimento riemergono indelebili nella memoria degli spettatori, quando si ripensa alla scena clou, la danza dei malati, sulle note di Dancing di Fossati, e i fuochi d’artificio che scoppiano quando tutto sembrava ormai spento, alla deriva come le barchette depositate sul velo d’acqua del palco. Il successo e l’emozione di Voci Erranti fa passare in sordina “Storia di Papà”, di Pautasso e Gamna, tratto dal romanzo I sansossì di Augusto Monti, raffinato intellettuale torinese della prima metà del secolo scorso. Frutto di un lungo lavoro di riduzione testuale, lo spettacolo ha tutte le caratteristiche per riportare Cantoregi ai temi del passato. I sansossì, infatti, è insieme un affresco popolare e una cronaca domestica, ambientata nel Piemonte dell’Ottocento, sullo sfondo di una storia che va da Napoleone alla Guerra d’Indipendenza; allo stesso tempo, la vicenda di Carlin, alle prese con il ricordo del padre Bortomelin – un orfano che va a vivere dallo zio Pedrin, arciprete prima di Ponti, poi di Monesiglio, e infine approda alla Torino di metà Ottocento – immette in un romanzo di formazione, che bene si presta a un classico confronto teatrale tra presente e passato. A Cantoregi non mancheranno, però, le occasioni per far sentire, anche attraverso questo testo particolare, la sua “voce errante” nei teatri piemontesi, primo fra tutti il Garybaldi di Settimo, che, per la sua storia e il suo significato, ne consacra la vocazione sperimentatrice e anticonformista. Tratto dal libro “In cerca di un paese” di Salvatore Gerace e Erika Monforte; Ed.SEB 27 ; 2006
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