Liberamente tratto dall’omonimo libro di Nuto Revelli di Vincenzo Gamna e Marco Pautasso, regia Koji Miyazaki Don Raimondo: Viale Aldo Demontis Voce di don Raimondo Viale: Valerio Dell’Anna Cantore ebraico: Samuel Lampronti Narratori: Irene Avataneo Chiara Bodda Marco Chiavazza Caterina Ciravegna Anita Cordasco Cristina Curti Fabio Ferrero Dario Geroldi Elide Giordanengo Germano Giordanengo Mara Ghibaudo Vincenzo Leuzzi Orazio Ostino Emanuele Romagnoli Nicola Stante Progetto e composizione Vincenzo Gamna e Marco Pautasso Elaborazioni sonore Gilberto Richiero Maestro di canto Sergio Daniele Costumi Luciana Bodda, Rinuccia Burzio e Margi Mordenti Tecnico luci Dario Sardo Tecnici di scena Mino Appendino, Bruno Crippa Segreteria Agnese Bosio Ambiente, luci e regia Koji Miyazaki Libretto Uomo libero e scomodo, prima ancora che prete, don Raimondo Viale è una delle tante figure eroiche rimaste nascoste nelle pieghe della storia, un po’ come Schindler o come Perlasca. Il Prete Giusto è la testimonianza di un sacerdote che della giustizia ha fatto la propria ragione di vita. Resistere è stata sempre la sua parola d’ordine: resistere ai soprusi, resistere al pestaggio, resistere alla condanna al confino, ad Agnone in Molise, e poi resistere al nemico nazista e al suo alleato fascista. Dopo l’8 settembre riprese il suo posto come parroco di Borgo San Dalmazzo, e si impegnò a trovare case, baite, rifugi, cibo a centinaia di ebrei provenienti dalla Francia, e a farli arrivare a Genova per imbarchi verso terre più sicure. Opera che nel 1980 gli valse dallo Stato d’Israele l’appellativo di Giusto. Ma aiutò anche i partigiani. Li aiutò in quanto prete, trafugando un cadavere di una delle vittime dell’eccidio di Boves per vegliarlo e dargli sepoltura, o confortando i tredici partigiani catturati dai nazisti in Val Grana prima della fucilazione, così come, dopo la liberazione, confessò e comunicò le spie fasciste condannate a morte. Ma fu capace anche di scontrarsi con il comunismo, che non ebbe mai paura di definire una dittatura militaresca, ma anche e duramente con la gerarchia ecclesiastica, fino a trovarsi sospeso a divinis e cacciato dalla sua parrocchia. Una storia disperata, la sua, ma un’evocazione a tratti emozionante, racchiusa in un testo breve di pagine scarne, scritte in una lingua asciutta e disadorna, che pare rendere essenziale ogni cosa e sembra riflettere un senso diffuso di spogliazione. Lo spettacolo vuole riproporre all’attenzione generale la sua figura esemplare, quella di un uomo che ha incarnato il senso di giustizia e che ha difeso sempre, senza indugi, il valore della democrazia e vuole rispondere al dovere di serbarne la memoria, anche e soprattutto nei confronti delle giovani generazioni. Ma vuole anche farsi occasione di riflessione approfondita su questioni come il senso della vocazione sacerdotale, i dubbi e le scelte di fronte alla Resistenza, il rapporto tra fede e storia, tra fedeltà ad una missione e debolezza umana, il revisionismo, l’atteggiamento dei cattolici, gli ideali traditi. Uno spettacolo che, speriamo, alla stregua del libro, possa proporsi come un buon antidoto contro le amnesie che sembrano avvelenare l’Europa di oggi. Uno sguardo lucido non solo sul passato, ma anche sul presente e sul nostro futuro. Nella nostra azione teatrale, “il prete giusto” non compare, o meglio, la scrittura scenica ne circoscrive la presenza a brevi seppur pregnanti apparizioni, cadenzate alla stregua di occasionali annotazioni diaristiche, proponendo l’immagine di una figura assorta in se stessa, irrigidita in una dolorosa riflessione interiore, che sembra consegnarsi allo struggimento, alla luce livida della solitudine. Ma ad evocarlo, ad onorarlo, a dire della sua vita, dell’intensità che risplende dietro le sue parole e i suoi gesti, a provare a decrittare le mute lettere del suo alfabeto interiore, a stringere l’atto della sua esistenza in forma di racconto, abbiamo incaricato simbolicamente chi sceglie sempre, responsabilmente e senza ambiguità, fuori dall’appartenenza generazionale, di resistere all’oblio, di non cedere alla smemoratezza. Di chi vuole scrollarsi di dosso certe scorie revisionistiche e negazioniste, ripulire i ricordi da tanta e deturpante polvere sedimentatasi negli anni, per riaffermare il valore irriducibile di ogni singola memoria, testimoniando così l’unicità di vissuti, come quello di don Viale, insopprimibili nel loro lascito. Articolo di Paolo Bogo Da Borgo San Dalmazzo a Gerusalemme Don Raimondo Viale, giusto tra le nazioni Fedele al suo nome, don Raimondo Viale (1907-1984) era un devoto del santo spagnolo Raimondo Nonnato (1200-1240) al quale, prigioniero in Algeria, fu posto un morso per impedirgli di predicare. Anche a Viale, spirito libero e vicecurato a Borgo San Dalmazzo ai tempi del fascismo, fu spesso impedito di parlare: picchiato più volte, venne poi condannato al confino in Molise per un’omelia in occasione dell’ingresso dell’Italia in guerra. Tornato a Borgo nella sua parrocchia, si ritrovò a gestire un’emergenza imprevista: l’arrivo in massa di profughi ebrei stranieri provenienti dal domicilio coatto di Saint Martin Vésubie dopo l’8 settembre 1943. Nonostante i rischi enormi dovuti all’occupazione tedesca, Viale non esitò a trovare nascondigli sicuri e a organizzare la fuga di quelli non finiti nel campo raccolta di Borgo, da dove 328 ebrei furono invece deportati ad Auschwitz il 21 novembre 1943. Un gigantesco ed eroico salvataggio che salvò centinaia di persone dalla morte, grazie ad una rete di solidarietà che coinvolse molti abitanti delle vallate vicine. Un’azione per cui la commissione dello Yad Vashem di Gerusalemme attribuì al sacerdote nel 1980 l’onorificenza di “Giusto tra le nazioni” . Proprio il diario scritto da Viale durante il viaggio nella capitale israeliana nella primavera di quell’anno fa da struggente leitmotiv allo spettacolo “Il prete giusto” che Progetto Cantoregi ha presentato con la regia di Koji Miyazaki dal 27 al 31 gennaio alla Cavallerizza di Torino. Un testo che Vincenzo Gamna e Marco Pautasso hanno liberamente tratto dall’omonimo libro di Nuto Revelli e da “Cella n° zero” di Elena Giuliano e Gino Borgna. Aiutato dalla recitazione molto corale di 18 emozionati ed emozionanti attori (tra cui va segnalata Elide Giordanengo nel ruolo di una spia fascista), pochi oggetti di scena, alcune suggestive canzoni e raffinate quanto semplici trovate visive (come la bandiera italiana fatta di vestiti), il regista giapponese ha raccontato con sobrietà e senza retorica un’epoca tragica della nostra storia attraverso la biografia di un uomo straordinario, senza tacere sulla sua successiva sospensione “a divinis”. Con risultati difficilmente dimenticabili. Paolo Bogo
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