PRIMA: Racconigi, Parco dell’ex ospedale psichiatrico, 15 giugno 2000 TESTO: Vincenzo Gamna, Grazia Isoardi, Koji Miyazaki, Marco Pautasso, con la collaborazione di Alessandro Vallarino, tratto da Graffiti della follia di Ennio De Concini e da vario materiale documentario presente negli archivi dell’ex ospedale psichiatrico di Racconigi REGIA: Koji Miyazaki AMBIENTE E LUCI: Koji Miyazaki ELAB. SONORE: Gilberto Richiero COSTUMI: Giuliana D’Alberto INTERPRETI: Trenta attori, alcuni dei quali partecipanti ad un laboratorio teatrale tenutosi con alcuni ex ospiti della struttura ospedaliera, diretto da Grazia Isoardi Libretto Voci Erranti è un piccolo progetto drammaturgico che altro non si propone che raccontare un mondo di sofferenza ai più sconosciuto. Un mondo che abbiamo isolato, recluso, metodicamente rimosso, pensando così di riuscire a rendere razionale l’irrazionale, e confermare la solidità del nostro Io, della nostra ragione, del nostro senno. Siamo stati per anni sordi, insensibili al dolore di chi si muoveva nel buio della mente, lo abbiamo tenuto nascosto, segreto e soprattutto non abbiamo saputo condividerlo. Abbiamo emarginato quel dolore in luoghi deputati, abbiamo creduto che potesse essere solo degli altri, che non dovesse mai appartenerci; lo abbiamo reso così senza speranza, affidandola sua rappresentazione solo alle parole della competenza e della tecnica. Non avevamo inteso invece che la sofferenza, qualunque essa sia, è essenziale nella realtà, che il dolore è consustanziale alla vita, che ne è inscindibile, che ne conferisce, forse, un senso. Sulla malattia della mente abbiamo pensato così di calare una coltre di silenzio, di indifferenza, quando non di insofferenza. Voci Erranti intende provare a scalfire, a frangere proprio quel muro di omertà, finanche di paura, che per molto tempo, e fino ai giorni nostri, ha sottratto quel dolore al nostro sguardo. Per guardarlo in faccia, per scardinare ogni correttezza acquisita, per corrompere la nostra quiete apparente. Voci Erranti è un passo mosso nella direzione della comunicazione, verso la possibile ricerca di un dialogo, per dar voce, per restituire dignità ad un universo di esclusi e di solitudini. Abbiamo individuato nell’ex ospedale psichiatrico di Racconigi lo spazio scenico ideale per esprimere questo nostro sentire. Perché, a nostro avviso, è proprio varcando la soglia di un luogo simbolo della sofferenza, così impregnato di memorie, naturale veicolo di emozioni e di verità difficilmente esprimibili altrove, che possiamo tutti insieme fornire il segno tangibile e concreto di una volontà di condivisione, di non rimozione. Con Voci Erranti abbiamo voluto emblematicamente accogliere, come in una casa comune, alcune testimonianze segnate dal disagio mentale, compulsate dalla varia letteratura sulla realtà manicomiale o semplicemente raccolte mettendosi in ascolto di chi ancora oggi abita la sofferenza, e raccontare così i punti di crisi di tante biografie, quando la malattia irrompe come un fiume in piena inondando la mente e dove la vita improvvisamente si ripiega su se stessa e si interroga sulla sua insensatezza sulla sua insopportabilità, e dove l’eperienza del dolore così radicato, quasi pietrificato nell’individualità, finisce per rendersi spesso incomunicabile e perciò muto. I nostri attori, grazie anche all’intensa attività laboratoriale in preparazione all’allestimento vissuta a stretto contatto con alcuni degli ospiti delle comunità attualmente operanti all’interno dell’ex ospedale psichiatrico di Racconigi, proveranno insieme a loro e per loro a vincere questa incomunicabilità, facendosi ciascuno portatore di quel dolore silente, per darne espressione e perciò forza, per farlo proprio, per condividerlo, per comunicarlo, e non semplicemente per interpretarlo. Voci Erranti è il nostro piccolo ma sentito sforzo per tentare di sottrarre la sofferenza alla sua solitudine, per accoglierla e perciò comprenderla, e ricondurla così nelle vicinanze della condizione umana che, è bene non dimenticarlo mai, è condizione di comunicazione. Articolo tratto da “La Repubblica” Il mistero della malattia mentale. Nel manicomio di Racconigi, a pochi chilometri da Torino, i pazienti e gli ex degenti recitano il proprio dolore Quelle voci dal teatro dei matti Le anime morte vestono camicioni bianchi,si muovo no con i piedi nudi nell’acqua. Guardano in basso e parlano solo quando hanno il permesso. Oppure guardano alto in un istante di esaltazione. Vedono quello che altri non vedono, vogliono farlo sapere, gridano. Bisogna calmarli. Ma di solito stanno dove devono stare, ubbidiscono. Temono il direttore, che li guarda dall’alto e gli fuma in faccia. Hanno facce stravolte, sono impegnati in un paziente ricordo che torna e ritorna o nella contemplazione di qualcosa. Non sanno che cos’è, non lo sa nessuno. Ma loro, almeno, lo vedono anche se non mostrano più la meraviglia. Temono il direttore ma amano la suora, che è un angelo. Un angelo, loro lo sanno, può anche essere terribile. A loro basta pronunciare la parola “angelo”, come esorcismo. Hanno segni bianche sul viso. Quei segni distinguono la loro natura di adepti, la chiamata di un mondo diverso, come la santità, come una rivelazione o un abbaglio. Si adattano, si piegano stremati alla forza della terapia dolce, la pastiglia che consuma la forza. Soccombono, con il corpo legato, alla terapia violenta che, attraverso le ossa e i nervi, deve raggiungere l’anima. Seguono la routine, rispettano ogni minima regola che decide ogni minimo istante di vita. Sembrano miti. Ma si piegano? Qui vedi che girano in tondo, con i piedi nell’acqua. Capisci che sanno altre cose, ma per il bene di tutti non devono dirle. Quello che avviene qui, e che vediamo in forma di spettacolo strano e perfetto, è simile e opposto a ciò che avviene nei campi dei desaparecidos o nelle prigioni. Qui blandiscono, seducono, disorientano i prigionieri, se necessario torturano con getti d’acqua violenti, con strumenti di contenzione, con scariche elettriche. Tutto, affinché non parlino. Però sopravvivono. Sono arrivati fin qui e fanno teatro. Qui dove siamo? Siamo in un bosco, in una notte d’estate. Tutto comincia dopo le dieci di sera. C’è uno spazio tra gli alberi, l’acqua per terra, ombre bianche che si muovono cautamente, tenui banchi di nebbia. E sul fondo nero degli alberi uno sfolgorio di lucciole. Siamo in un manicomio. E’ il manicomio di Racconigi, trenta chilometri da Torino, cento passi dal Castello Reale. Uno dei più grandi centri di reclusione della follia italiana. E’ la casa dei matti che non stanno al passo dei doveri e del lavoro. Portati su dai campi, dove stranamente tentavano di uccidersi, come se fossero ricchi, o di uccidere, come se fossero criminali. E invece loro erano disinteressati. Uccidevano e restavano lì, senza rivelare il segreto, senza ammettere e senza negare, sapendo che non si può spiegare, consapevoli di meritare una pena. Siamo a teatro. Infatti quando la lama dei riflettori ti aiuta, vedi panchine bianche disposte intorno al cerchio d’acqua e poi gradinate improvvisate, fra il cerchio d’acqua e gli alberi. E intravedi l sagome scure di due o trecento persone che si stipano per guardare. Nella tensione non senti un respiro. Tutto il paese viene a vedere cosa c’era nella città dei matti. Siamo a teatro, ma questo è il più strano e il più rigoroso teatro d’Europa. Gli attori (le ombre bianche) sono parte della comunità psichiatrica che c’è in questo bosco, oppure sono giovani volontari, non attori di professione. Il regista è Koji Miyazaki. Con Vincenzo Gamna, Grazia Isoardi, Marco Pautasso fa parte del Progetto Cantoregi. Sono i fondatori e i seguaci di un culto del teatro bellissimo e irripetibile, perfetto come se dovesse durare una vita senza perdere un colpo. E invece non può ripetersi. E’ come se Ricasso fosse stato un madonnaro che disegnava sull’asfalto del marciapiede le sue figure abbandonandole alla pioggia.Qui sono tutti felici perché da due giorni non piove, l’anziano sindaco, che sa che queste cose si ripeteranno, al massimo, per tre o quattro sere. Il giovane assessore alla Cultura, che alla comunità aperta del dopo manicomio lavorava da anni. Una sua ossessione (“C’era uno stanzone lungo 120 metri, un’unica stanza, una sola suora, ottanta malati su un lato, ottanta sull’altro. Toglievano la luce alle otto di sera”) ha ispirato una parte del testo. E la senti come un incubo per le quasi due ore dell’evento spettacolo, che però è anche un saggio, un convegno, una terapia e una sosta dei non addetti ai lavori e dei sani presunti che possono affacciarsi sul bordo di un mistero.Il confine è segnato da quel cerchio d’acqua profondo pochi centimetri, che lentamente si muove portando barchette di carta che sono anche messaggi ultimi e disperati dei degenti. Il cerchio d’acqua continua a girare e disorienta. Deve disorientare. Questo è il mondo in cui nulla è fisso, in cui principio e fine si creano in un altro modo e hanno un altro significato. Si chiama Voci Erranti il rito notturno del Progetto Cantoregi di Racconigi, che potete chiamare “teatro”, “spettacolo” o “happening”, se volete collocarlo in una lista di normali eventi. Ma questo non è un evento normale. “Laggiù” ti dicono indicando dall’altra parte del bosco “c’è ancora un reparto chiuso. Urlano tutta la notte, e certe volte anche da qui le senti”. Per fartelo intravedere Gamna e Miyazaki conducono con estrema cautela, con un tocco dolce da estranei, i movimenti, le luci, le voci i suoni (bellissimi i suoni) di scena, soprattutto quelli che coinvolgono nell’azione gli ex degenti, i malati. Fanno in modo che il sussulto, il trasalimento, lo stupore, lo spaesamento, il senso impotente della protesta, la totale mancanza di potere e controllo si senta di qua, tra i nervi del pubblico. Si sente, infatti, il dolore e l’umiliazione della lingua negata, quel pozzo assoluto di solitudine che è la malattia mentale, troppo grande o troppo profonda o troppo diversa per essere raggiunta da mani umane, destinata a sfuggire in avanti con i movimenti di una marionetta tormentata, troppo passiva e troppo viva, un grumo di contraddizione e di dolore. Le voci che danno il titolo al prodigioso progetto del gruppo piemontese e del regista giapponese sono le voci miracolose e poetiche del delirio, della espressività che si avvia su una strada che dovrebbe essere preclusa alla persona comune, agibile, se mai, per il profeta, per il taumaturgico, per il visionario. Chi ha abbattuto i cancelli della “normalità”, spingendo all’improvviso una persona, che fatalmente sarà dichiarata pazza, nel campo aperto della ragione senza limiti, dunque “squilibrata”? Proprio mentre un gruppo di malati e di sani, nel bosco di Racconigi, racconta con voci sussurranti, voci di creature domate, voci urlanti di impulso di libertà, voci da tranquillante, voci del dopo-malattia in cui si ritorna opachi come tutti i sani, un gruppo di psichiatri napoletani (Claudio Putrella, Enrico de Notaris, Francesco Blasi) dedica alle voci della follia che diventano teatro un libro Psicodramma furto del pensiero (Edizione “Lettere italiane” pagg. 170, lire 24 mila), e anche i testi di alcune loro sperimentazioni, azioni teatrali come territorio di incontro e sprazzi di rivelazione. Anche per i tre psichiatri napoletani il fascino deriva dal mistero delle voci, dalla loro impenetrabile poeticità, che non può essere interpretata, ma che non può rinunciare a dire. Essi parlano, citando anche altri autori, di “lirismo schizofrenico”: “un insieme di libertà formale, rilassatezza semantica, astrazionismo ermetico,contiguo alla poesia vera”. Vedono nella rottura della simmetria (il prima e il dopo, il sopra e il sotto, il grande e il piccolo, la causa e l’effetto, la parte e il tutto) il punto di esplosione del male. “ Subentra – dicono – una casualità psicologica i tipo animistico, una identificazione tra causa e colpa, responsabile della inesorabile incombenza dell’universo…”. Si è rotta la simmetria, non è il reclamo o l’imposizione che può servire da cura per il ritorno alla realtà. Ma un percorso più dolce, quello della “complementarietà”, che permette al medico di stare accanto al malato in posizione non violenta. Costruisce uno spazio neutro per un aggancio senza conflitto. Il gruppo teatrale di Gamna e Miyazaki ha raggiunto le “voci erranti” lungo un altro percorso: accettare la misteriosa poeticità delle voci e farle ascoltare. I testi sono tutti di malati o ex malati che scorrono lungo i due momenti chiave: da dove si entra nella malattia, per quanto sia imperfetto il resoconto della memoria. E il punto di resa, di sconfitta, in cui non c’è che un muro. Oppure la cura, come vacanza tranquillante, la cura dove piano piano si spengono la malattia e la persona. Spesso, nello spettacolo teatrale, i malati cambiano testo. Non ripetono mai la stessa versione. E’ una strategia di rappresentazione, non di cura. In questo i due progetti, del teatro Cantoregi e degli psichiatri napoletani, sono diversi. Li unisce una cultura che non è maggioritaria in Italia, ma che continua a guadagnare un po’ di terreno, quello dell’attesa e del rispetto, sul bordo del mistero. Furio Colombo Articolo di Silvia Francia tratto da “La Stampa” Il grande successo di “Voci erranti” del Progetto Cantoregi La follia diventa spettacolo Lavoro corale sugli ex “matti” L’applauso sembrava non finire mai. Dire che l’accoglienza riservata dal pubblico allo spettacolo “Voci erranti”, che l’associazione Progetto Cantoregi ha presentato al Garybaldi di Settimo, è stata calorosa, non rende l’idea. Sotto una finta nevicata, partita dal palcoscenico per imbiancare tutta la platea, la commozione del pubblico era quasi palpabile. E non senza ragioni. Anzitutto, un tributo caloroso ad un allestimento riuscito, suggestivo e poetico. Ma anche un riconoscimento al lavoro svolto dal team di Cantoregi, gruppo che dal ’77, anno della sua fondazione a Carignano, ha prodotto, contando solo su attori non professionisti, spettacoli-evento di qualità artistica non certo “amatoriale”, sempre centrati su temi sociali. Merito anche dell’anima del gruppo, l’ex regista RAI Vincenzo Gamna e dei suoi “fidi collaboratori”, il regista giapponese Koji Miyazaki e Marco Pautasso, responsabile del personale di un’azienda ma “teatrante ad honorem” per lunga militanza. Un triunvirato inossidabile, che guida Cantoregi con passione ,riuscendo a far miracoli con poche risorse finanziarie:fatta eccezione per sporadiche sovvenzioni pubbliche, il Progetto si autofinanzia. Questa volta, il gruppo, specializzato in lavori corali con cast numerosi (nel ’95 con lo spettacolo “Nebbia” portò in scena i 150 abitanti di un quartiere di Carmagnola), si è cimentato con il tema difficile, della malattia mentale. Il lavoro, che ha visto la luce l’estate scorsa nell’ex ospedale psichiatrico di Racconigi, è nato da un lavoro laboratoriale svolto proprio con alcuni ospiti di quella struttura. E dieci di loro, oltre ad alcuni infermieri, figurano nel cast della messinscena, che rievoca, senza troppo concedere alla retorica, quel mondi di torture e storture, letti di contenzione ed elettroshock, docce gelate, pasti brodosi, ricordi da rimuovere, crisi epilettiche, solitudine e nostalgia. Elementi di un grande collage del dolore e della “diversità” che, nello spettacolo, si trasforma in movimenti corali e quasi coreografici, in un canto collettivo di disperazione e, forse, di riscatto. Dal coro affiorano, come in una “Spoon River” dell’emarginazione, voci solitarie che raccontano storie (vere) di ex degenti del manicomio: un uomo che non sa di aver ucciso la madre e le scrive lettere piene di nostalgia, una sposa che il marito voleva “vergine e madre” e che da “madonna”si è trasformata in puttana etilista, ragazze che oggi hanno 30 anni e furono rinchiuse quando erano bambine. Emergenze di dolore che non hanno bisogno, per essere teatralmente metabolizzate, di grande supporto scenografico: bastano un letto di ferro, un fondale bianco, un corteo di candele. Silvia Francia Articolo tratto da “Il nostro tempo” Racconigi: Spettacolo con ospiti dell’ex O.P. Questa sera si recita nel vecchio manicomio Esiste una tipologia di teatro che ha il raro dono di ricercare la verità senza che la “finzione” scenica si sovrapponga all’autenticità. E’ il caso del Progetto Cantoregi, che dal 15 al 19 giugno scorso ha allestito nel rigoglioso parco dell’ex ospedale psichiatrico di Racconigi “Voci erranti”, una proposta teatrale di Vincenzo Gamna, Grazia Isoardi, Marco Pautasso e Koji Miyazaki,che ha curato anche la regia. Lo spettacolo è frutto di un’intensa attività laboratoriale, vissuta a stretto contatto con alcuni degli ospiti delle comunità dell’ex O.P. del comune piemontese, con la volontà di sconfiggere il silenzio e l’indifferenza che circondano spesso la realtà del disagio mentale. E questo atto di solidarietà di alto significato civile e morale, volto a restituire voce e dignità a quel mondo di esclusione e reclusione, non poteva che essere rappresentato nell’ex manicomio, luogo simbolo di quelle sofferenze, coerentemente con il percorso artistico incentrato sulla testimonianza e sulla memoria che il Progetto Cantoregi porta avanti in modo ammirevole da più di vent’anni. Accanto agli attori della compagnia, tra cui le ormai storiche figure di Dino Nicola e Orazio Ostino, sempre straordinari, recita una decina di ospiti delle comunità. Il rito si consuma in un’arena circolare, delimitata da panche bianche, tra il profumo intenso degli alberi e dell’erba: e per quella magia che è propria degli spettacoli all’aperto, la prima a esibirsi è un’ignara lucciola che vaga qua e là, errante come le voci dei protagonisti dell’atto teatrale. Gli attori, vestiti di bianco, sono seduti di fronte al pubblico su una piccola gradinata. Hanno segni bianchi e rossi sui visi, a suggerire la similitudine tra comunità psichiatrica e riserva indiana. Magnifici e di intensa valenza simbolica gli effetti teatrali: per tutta la durata dello spettacolo da una pompa fuoriesce dell’acqua, che ricopre progressivamente l’intera superficie dello spazio scenico. Quando le luci si attenuano e sale dal basso del fumo, i malati che su muovono lenti sembrano immersi in un’inquietante atmosfera infernale, mentre quando ballano, accompagnati dalla canzone “Dancing sotto il mare” tratta dall’ultimo disco di Ivano Fossati, all’improvviso esplodono due stupefacenti cascate di fuochi artificiali che si riverberano sullo specchio d’acqua. I quadri si susseguono con lo stesso ritmo lento e inesorabile che scandiva la giornata dei degenti. Nove testimonianze di dolore, isolamento e solitudine si alternano a scene collettive di forte coinvolgimento emozionale: dall’ossessiva ripetizione di nomi di malattie mentali alla disumana freddezza delle norme che regolavano la vita all’interno del manicomio, dall’elenco delle provviste annuali necessarie alla comunità all’indicazione delle terapie (getti d’acqua, psicofarmaci, elettroshock, lobotomia), dalla distribuzione di cibo alla somministrazione delle medicine, dove la suora, che dispensa bianche pastiglie ai malati in fila, sembra fissata nell’atto sacerdotale di una laica eucaristia. La sofferenza è il denominatore comune di tutte le storie, raccontate ora in italiano ora in piemontese: c’è il ragazzo che ha tentato innumerevoli volte il suicidio, la donna che si rifugia nell’alcool e nella follia per la pazzia del marito, il poetico Berretta che non si toglie mai il cappello perché ha paura che la morte entri dalle orecchie, traumatizzato dallo spaventoso fragore della guerra e dei bombardamenti, il malato rimasto bambino che scrive strazianti e inascoltati appelli alla madre; e c’è la ragazza che sente le voci, identificata in Giovanna d’Arco per spingere a riflettere su quanto spinosi siano i confini che separano normalità e patologia, e su come le stigmate della diversità, anche nel caso di figure eccezionali, abbiano sempre portato a processi di rifiuto e di rimozione da parte della società. Chiave di lettura di tutti i casi sembra essere l’affermazione di una delle degenti: “La mia malattia è un mistero. Un mistero conosciuto solo da Dio”. Erika Monforte Articolo di Monica Leonardini tratto da “La Stampa” Attori in cerca del paradiso La Stampa-Torino, 31 agosto 2000 La vecchiaia secondo il filosofo e la vecchiaia secondo gli utenti di un Centro Incontro Anziani. Sara’ poi tanto diversa, la percezione di questo estremo segmento della vita, a seconda che a farne esperienza sia un pensatore come Norberto Bobbio oppure un <> qualunque, nella fattispecie uno di quelli che frequentano un centro ad hoc di Racconigi? Una domanda implicita, che sembra giustificare la formulazione secondo la Compagnia Progetto Cantoregi, che ha allestito <> di Bobbio: lo spettacolo, realizzato con lo Stabile torinese e inserito nel progetto che celebra il decennale della pubblicazione del saggio, e’ in cartellone al Maneggio Reale della Cavallerizza per questa sera e domani alle 20,45, domenica alle 15,30. Gli autori Vincenzo Gamna e Marco Pautasso e il regista giapponese Koji Miyazaki, sono partiti proprio da indicazioni e illuminazioni del celebre testo e da concetti come quello della <>, per coinvolgere nella riflessione un gruppo di anziani, che interpretano lo spettacolo, con l’attore Giovanni Moretti. Gli anziani raccontano se stessi, dunque, in un percorso rappresentativo che non e’ solo esposizione di temi ricorrenti – indigenza, solitudine, memoria, malattia – ma anche un tentativo di guardare molto da vicino l’angoscia della fine, insita nel nostro destino di mortali. Centrale, nello spettacolo, la tesi che oggi piu’ che in passato <>, una condizione indotta da una societa’ che misura il comparto <> secondo criteri di razionalita’, efficienza e consumo. Parametri rigidi, che non lasciano spazio all’ascolto. Sicche’ ai vecchi, via via che imbiancano, non restano che rigidi binari sgangherati su cui incanalare quel che resta delle loro traiettorie di vita. Monica Leonardini
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